S’ISCUREDDU

Giovanni Zolo: caduto  nel corso degli attacchi austriaci sulla Bainsizza, esempio di umile e costante abnegazione.

La toccante vicenda de “S’Iscureddu” (16 settembre 1917)

“Ed anche tu, umile amico mio, sarai ricordato in queste pagine, perché viva nel cuore dei sardi e di tutti i fanti che generosamente compirono il loro dovere. Era un caporale piccolo, magro e bruno, con due grandi occhi neri che brillavano anche nel buio della notte. Aveva il volto di fanciullo, ed era bello e forte come un giovine virgulto di quercia. Si chiama Giovanni Zolo, ma nel villaggio l’avevano soprannominato “siscureddu”, il poveretto, perché poverissimo, di quella povertà sarda nuda e desolante che però, per quel fiero sentimento di dignità insito nella nostra gente, non si piega alla elemosina ma si sforza ostinatamente di chiedere alle più dure fatiche quel tanto che è indispensabile per non morire di fame. Da bambino era stato mio compagno di scuola e c’eravamo fatti compari – come si usa in Sardegna. Era intelligente e buono, e la sua povertà estrema lo rendeva caro a tutti. A otto anni abbandonò la scuola e cominciò la sua vita di pastorello; conduceva la mattina al pascolo, e riaccompagnava la sera in paese il gruppo di capre che forniscono latte giornaliero ad alcune famiglie. Più fortunato di lui, io andai in città a compiere i miei studi. Tutti gli anni, nelle vacanze, lo trovavo sempre buono, sempre docile; lo trovavo con quel suo animo ingenuo, con quel suo cuore puro che amava tutto, gli uomini, le sue capre, gli uccelli, i fiumi, i campi, e che tutti confondeva nella sua ingenuità primitiva.

Scoppiata la guerra, gli eventi ci fecero ritrovare nei luoghi della gloria e della morte; io tenente, lui caporale. Per il suo affetto, ero il compagno della sua infanzia, il suo compare; per il suo dovere, l’uomo più istruito e più responsabile: il suo superiore, il suo ufficiale. Nei nuovi rapporti che ebbe con me in guerra il suo rispetto e la sua devozione erano immensi: sempre pronto, sempre vigile, sempre il primo ad eseguire gli ordini, a dare l’esempio. A Monte Zebio, il 10 giugno 1916, mi stette sempre vicino – anche non visto – e quando fui ferito per lo scoppio di una bombarda e scaraventato violentemente a terra mi raccolse e mi curò. Il 19 a sera, ritornati in linea sul saliente di Monte Zebio, in cui non esisteva quasi più la traccia delle vecchie trincee, volle essere con me nel punto più pericoloso – a non più di sette metri dal nemico, appiattato dietro un roccione, con pochi altri soldati. Poiché il pericolo era continuo e grande la responsabilità, ogni tanto dovevo affacciarmi ai lati del roccione per vigilare sul nemico: ogni muover di rami, ogni rotolar di sassi, ogni scotimento d’aria ci procurava un’ansia tremenda. Appena io accennavo a muovermi, un’ombra mi strisciava davanti: era lui. Accennai ai soldati di rimettere a posto qualche sacco sventrato, di ricominciare a lavorare per costruirci un piccolo riparo ed egli per primo, con grande fervore, si mise all’opera, subito però interrompendola non appena io accennavo ad affacciarmi oltre il roccione. Per due o tre volte la sua ombra mi passò davanti mentre guardavo nel buio della notte; seccato per vederlo esporsi troppo imprudentemente, con la possibilità di essere visto dal nemico, e perché mi sembrava una menomazione di prestigio davanti agli altri soldati, lo rimproverai e gli ordinai di accudire al suo lavoro senza preoccuparsi d’altro. Sentii due occhi neri quasi frugarmi in fondo all’anima ma non una parola: ritornò al suo lavoro. Il nemico forse accortosi che noi lavoravamo, fece una scarica di bombe che per fortuna andò a vuoto, contribuendo però ad affrettare i palpiti dei nostri cuori e a farci ritornare alla vigilanza più attenta. E di nuovo lui che con una Sipe in mano si pianta davanti al roccione dove ero ritornato per ricambiare la moneta al nemico: e questa volta con uno strattone lo ritraggo dal posto.  Sentii un singulto: piangeva. Mi avvicinai e gli spiegai, cercando di convincerlo, che aveva fatto male. Mi rispose: «Sarà, signor tenente, sarà, ma se muore lei la compagnia non ha più un comandante e poi lei ha la mamma … io …».

Questa è forse la pagina di storia della Grande Guerra più toccante scritta da Leonardo Motzo, per ricordare il suo più caro amico d’infanzia, il caporale Giovanni Zolo.

Andati poi sulla Bainsizza, mi fu ordinato di prendere il comando della compagnia d’assalto. Ubbidii, naturalmente, e quantunque lui insistesse perché lo facessi venire con me rifiutai decisamente, sapendo quanto fosse pericolosa l’azione cui si andava incontro. La mattina del 15 settembre, appena messo il piede nella trincea nemica, lo trovo al mio fianco. Lo guardo con collera, ma lui, che ha intravisto nel mio sguardo il rimprovero che sta per seguire, corre avanti a tutti gridando e lanciando bombe. Nel primo contrattacco nemico, un reparto salta un muro al comando di un tenente. La compagnia d’assalto fruga il terreno e gli uomini sono dispersi qua e là. Io ero in piedi, completamente allo scoperto: un ufficiale austriaco spara su di me –  anche lui in piedi. Venti metri di distanza. Per fortuna il colpo va a vuoto. Subito, un urlo ed una fucilata. L’ufficiale austriaco giaceva a terra, morto: era il caporale, che una volta ancora mi aveva salvato.

La notte il capitano Musinu mi dice: «Venga con me a mettere dei gabbioni fuori della trincea». Vado. Ne prendiamo uno grande in due, e via, fuori. Nessuno dei due sapeva con precisione dove fosse la trincea austriaca e perciò ci eravamo spinti molto avanti, quasi addosso al nemico, tanto che un’improvvisa scarica di mitragliatrici – dalla quale ci salvammo per miracolo – ci fece scappare in direzioni opposte. Credevo di essere solo, ma un’ombra umana correva ansante dietro di me. Era lui! Sempre lui! Rientrando in trincea, mi accorgo che per un grande tratto non è presidiata; adirato voglio andare a chiamare qualche reparto e dico a lui che intanto mi aspetti e che faccia buona guardia. Mi risponde che vada senza preoccupazioni. Ritornato lo vedo appoggiato alla trincea in atto di chi scruta e ascolta attentamente. Lo chiamo: «Giovanni, Giovanni». Non risponde. Penso che qualche pattuglia austriaca sia lì vicino e che non voglia rispondere per lasciarla avvicinare ancora di più e farla prigioniera. Mi addosso anch’io alla trincea e così pure fanno gli uomini che ho condotto con me. Tutti siamo pronti ad accendere le bombe. Guardo: nulla. Ascolto: nulla. Chiamo di nuovo: «Zolo, Zolo». Non risponde. Intuisco: con un salto gli sono addosso, lo scuoto, lo chiamo. Mi sento le mani bagnate. Lo stringo fra le braccia: lo scuoto ancora. È morto. Una pallottola lo ha colpito in fronte, fulminandolo, ed è rimasto così, appoggiato alla trincea, a guardare il nemico come se fosse ancora vivo”.